Anniversari: 10 anni fa l'addio ad Aristide Facchini

 

  

 

 

Dieci anni fa, il 26 luglio 2008, moriva a Milano Aristide Facchini. E’ stato un campione, forse il più grande che lo sport di Molinella abbia mai avuto. Eccone un ricordo, da Vite di molinellesi illustri di Andrea Martelli (La Compagnia del Caffè, 2012).

 

La Gazzetta dello Sport, che nel luglio del 1941 aveva celebrato a tutta pagina il trionfo di Aristide Facchini “nuovo primatista italiano dei 110 ostacoli”, il 28 luglio 2008 ne annunciava con un breve trafiletto la scomparsa, avvenuta due giorni prima a Milano. Ha trascorso gli ultimi mesi inchiodato ad un letto, dice il figlio. L’hanno tradito le gambe, che in gioventù l’avevano fatto volare.

Nella personale classifica del vecchio Baldrati, che fu il suo primo allenatore, Aristide Facchini, Facco per gli amici, condivideva forse con Augusto Magli il privilegio di essere il più grande atleta che Molinella avesse mai conosciuto. Però - aggiungeva sempre Baldrati - il divo Augusto fu solo calciatore (e con un piede solo, per giunta), mentre Facco, completo in tutto, fu altrettanto grande come atleta e non meno grande come allenatore. Quanto all’amichevole dualismo Facchini-Bertocchi, che lo stesso Baldrati aveva contribuito ad alimentare per spremere il meglio da entrambi, il primo per lui era Coppi, cioè la classe, la perfezione, lo stile; l’altro era Bartali, cioè la grinta, l’orgoglio, la rabbia.

Da Portomaggiore, dove il nostro campione era nato nel novembre del 1920, il padre si trasferì a Molinella per venire a lavorare in bonifica quando lui, Facchini, era ancora bambino. Lasciate le Scuole d’Avviamento, andò presto a lavorare, per essere di qualche aiuto alla famiglia. Prima in risaia, “vinatiere” tra le mondine, poi allo zuccherificio come fattorino.

La sua storia di atleta comincia con una rovinosa caduta dall’alto di un’impalcatura, che gli procurò un trauma toracico grave. Dopo una lunga degenza in ospedale, il primario dottor Ricci gli consigliò di fare tanta ginnastica. Il podestà Castellari ordinò all’avanguardista Facchini almeno un mesetto di Campo Dux, affidandolo alle cure del ginnasiarca Boscutti, ex campione di salto con l’asta, che avrebbe voluto fargli fare un po’ di tutto.

Fu allora, nell’estate del 1936, che Facchini incontrò Alfredo Baldrati, il quale mise a disposizione di quel ragazzo ancora convalescente tutta la sua smisurata passione.

Baldrati impostò Facchini da giavellottista e questi, nel 1937, vinse subito la Coppa Giuliani, scagliando l’attrezzo a mt. 45,12. Ma Facchini voleva solo correre. La pista in terra rossa dello stadio appena inaugurato: era quello il suo mondo. Tutti i giorni Facchini era lì, con qualsiasi tempo, anche da solo. L’anno seguente, così, tanto per provare, ma senza alcuna preparazione specifica, Facchini corse i 100 piani in 11”2.

C’erano però gli ostacoli nel destino di Facchini. Per aumentare il ritmo di corsa e la frequenza dei passi tra un ostacolo e l’altro, Baldrati lo costringeva a correre da fermo su una pietra. Facchini disputò la prima gara sugli ostacoli a Ravenna, nell'estate del 1938, facendo fermare il cronometro sul tempo di 16”5. In quell'occasione, indossava già la maglia della Milizia Ferroviaria di Bologna, come il compaesano e già affermato mezzofondista Carlo Bertocchi.

Scese a 15”2 nel 1940, ma il suo anno d’oro fu il 1941: tra giugno e luglio, in un incredibile crescendo di risultati, prima eguagliò con il tempo di 14”7 il record italiano (Firenze, 22 giugno) che apparteneva a Oberweger e Caldana, poi, nel corso del meeting internazionale Italia-Germania (Bologna, 29 giugno), che segna tra l’altro il suo esordio in nazionale, Facchini corse la distanza in 14”6, rimanendo primatista assoluto. Il 20 luglio stupì ancora tutti ai Campionati Italiani che si disputavano Torino: il cronometro disse 14”4, nuovo record italiano e seconda prestazione d’Europa. Un primato che resisterà ben 17 anni, un tempo da finale olimpica sicura.

Ma c’era la guerra che infuriava e di olimpiadi non si sarebbe più parlato più fino al 1948, quando Facchini avrà purtroppo già appeso le scarpette al fatidico chiodo, impossibilitato a continuare per i postumi delle fratture riportate durante un’azione del suo reparto paracadutisti.

Finita la carriera di atleta, nel 1947 cominciò quella di allenatore. Con uno stipendio da fame, lavorò alla Lavoratori Terni e poi al Cus Bari. Finalmente, nel 1955, lo chiamarono le Fiamme Oro Padova e gli affidano uno squadrone. C'era tra i suoi allievi da sgrezzare anche il giovanissimo Livio Berruti, che Facchini accompagnerò fino alla vigilia delle Olimpiadi di Roma.

Nel 1960, quando Berruti vinse l'oro olimpico, Facchini aveva già “tradito” l’atletica per il calcio, che già allora pagava di più e meglio: era andato al Milan, preparatore atletico della squadra allenata da Rocco. Lo chiamavano il professore e doveva prendersi cura dei muscoli di Rivera, Altafini & C., lanciati alla conquista dello scudetto e, nel 1963, della prima Champion della storia rossonera.

Nel 1967 tornò all’atletica primo amore: allenò il Gruppo Carabinieri Bologna e quindi la Fiat Torino. Nel 1970 entrò nel clan di Nino Benvenuti, al tempo dell’ultima sfida mondiale con Monzon.

L’anno seguente era di nuovo al Milan, dove nel 1979 fece ancora in tempo a vincere, con Liedholm, “lo scudetto della stella”, prima di lasciare il campo e andarsi a sedere dietro la scrivania di direttore del Centro Tecnico di Milanello. Rimase in quell’incarico fin quasi all’alba dell’era Berlusconi, dal quale lo divideva solo l’amicizia mai rinnegata con Gianni Rivera.

Quando andò in pensione disse che, se gli fosse bastato il tempo, avrebbe voluto godere di molte cose. Dell’amore delle donne, con le quali, in verità, non si era mai risparmiato neanche quando era più giovane. Del calore della famiglia, che non aveva mai avuto. Del ricordo degli amici di un tempo, che vedeva calare di numero ogni volta che tornava a Molinella.

Alfredo, Augusto, Carlo, Pipetto ... se ne erano ormai andati tutti. Prima che lo abbandonassero anche i ricordi, Aristide Facchini, “atleta di olimpica bellezza” come aveva detto una volta Gianni Brera, deve aver pensato che ora non aveva più bisogno del suo vecchio corpo, imbrigliato dagli anni e dai malanni.

E infatti l’ha lasciato lì dov’era, sul letto della casa di riposo, per gettare un’altra volta il cuore oltre l’ultimo ostacolo.

 

 

 

 

   

 

 

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