"Ma i campetti hanno resistito 30 anni dopo l'Olimpia...". Un articolo di Dario Mantovani

 

L'Old River, il campetto dello Zuccherificio in via Fiume Vecchio, teatro di tante battaglie

 

Sul “calcio di strada” raccontato dal caffè, è intervenuto il sindaco con un articolo pubblicato sull'ultimo numero del giornale del PD (Molinella a confronto n.14 / aprile 2016). Ve lo riproponiamo qui come contributo al dibattito, quasi un festival della nostalgia, che la storia dell'Olimpia, del River e della Torpedo ha suscitato. Tra le tante “recensioni” favorevoli al nostro lavoro di archeologi dello sport molinellese, sono per noi come una medaglia le parole di Marco Calcinai, il quale, in altra pagina dello stesso periodico, scrive che “il caffè è, per argomenti, il giornale che leggiamo più volentieri, se non altro perché, occupandosi di sport, è l'unico che parla di cose serie”.

 

 

 

Ma i campetti hanno resistito 30 anni

Dopo la lettura del nuovo numero del “Caffè”, una riflessione sentita è un po’ nostalgica sui campi dove il calcio non ufficiale ha prosperato fino al 2000.

 

Ho letto con molta attenzione l’ultimo numero del Caffè, nello specifico l’articolo “C’era una volta l’Olimpia, il River e la Torpedo. Memorie del calcio di strada” a firma Andrea Martelli. Devo anche dire che per gustare meglio i contenuti ho fatto un giro anche sul sito duecaffe.it dove oltre all’articolo ci sono allegate alcune fotografie che, devo dirlo, unitamente allo scritto fanno venire un groppo alla gola per noi romantici del calcio, che molto spesso contempliamo i tempi passati con l’occhio umido e la voce tremolante.

Mi piacerebbe però ampliare il bellissimo articolo di Martelli con un ragionamento aggiuntivo. Se è certamente vero che nel 1968 si aprirono le porte del Nucleo Addestramento Giovani Calciatori sotto la guida del mitico Edgardo Bianchi (penso sia stato l’allenatore di tutti gli over 30 sul territorio molinellese, almeno per una stagione), contribuendo in maniera fattiva alla conclusione della storia intensa ma fugace delle squadre del calcio di strada, è anche vero che un calcio parallelo e non ufficiale è sopravvissuto per lungo tempo (almeno 30 anni) per la motivazione più semplice: erano sopravvissuti i luoghi.

Sicuramente non si raggiunse più l’anarchica organizzazione delle squadre dai nomi esotici di un tempo, con le sue regole belle e terribili (basti pensare alla temutaregola numero 1”), ma tanti ragazzi hanno continuato a ritrovarsi spontaneamente in diversi luoghi, scontenti del calcio organizzato o in aggiunta ad esso. I luoghi sono molteplici, ad ognuno di essi è legata una o più storie.

 

 

 

Per circa 30 anni ogni sabato pomeriggio, in Via Fiume vecchio, davanti a quello che fu lo zuccherificio, un ex campo da tennis riconvertito al calcio sulla via di Damasco ha ospitato partite incredibili, sempre polverosissime d’estate e assolutamente impraticabili d’inverno, con rimozione di lastroni di ghiaccio nel prepartita e match disputati con 30 cm di neve. Molti di quei giocatori che si sottoponevano a partite primaverili dalle 14.30 alle 19.30, non hanno mai conosciuto il calcio ufficiale. Altri, che il calcio ufficiale lo avevano ben praticato, da quelle condizioni impossibili hanno ricevute lezioni calcistiche e umane.

Come non ricordare il “campetto del Prete”, luogo vicino al ritrovo istituzionale, che ospitava match incredibili prima, dopo o alternativamente la catechesi: quando il prete, allora Don Carlo Federici si stancava delle urla e della troppa concitazione, gli irriducibili si trasferivano, biciclette alla mano, al campetto vicino alla ex Provisal. Il trasferimento comportava sempre qualche problema: perché nella migrazione si perdeva sempre qualcuno che doveva tornare a casa anzitempo. Il guaio, anche allora, è se veniva a mancare il proprietario della palla. Strumento sicuramente accessibili fin dagli anni 80’, non fosse per il fatto che se ne perdevano una quantità smodata.

Tanti palloni si è portato via l’Annegale, il canale di scolo vicino i campi della FreeJet. Dico campi perché erano almeno 3: quello ufficiale dove non si poteva e non si doveva mettere piede, pena l’incorrere negli strali del custode Chiarini (nonché il campo ufficiale sia mai stato “la scala del calcio”, ribattezzato dai giovani calciatori d’allora “Kartoffel Camp”: lascio a voi la traduzione), il campino dietro la porta che si affaciava sull’Anteo e la temutissima “Gabbia”.

Nel secondo, a metà degli anni ’90, si sono svolte maratone calcistiche nel periodo estivo: 10.00/12.00 la mattina, 15.00/19.00 il pomeriggio, 20.00/21.15 la sera: poi veniva buio, e gioco forza si doveva smettere, salvo partite molto combattute che hanno visto l’epilogo nell’invisibilità totale del pallone e dei compagni. C’era la linea dell’out solo da un lato, e vicino ad una porta c’era una muretta lunga sei metri: i più bravi cercavano la sponda del muretto fino all’insorgere delle prime contestazioni. Discussioni e negoziati così deliberarono: bandito il goal di sponda, si accettava l’assist con l’aiuto della muretta. I più bravi si smarcavano facendosi passare la palla dal muro stesso. Qualche anno dopo li abbiamo ritrovati sul tappeto verde del biliardo.

La temutissima “gabbia” era famosa per il pantano della stagione invernale: scene vicine alle partite di fantozziana memoria, con tanto di apparizione di San Pietro sulla traversa.

In entrambi i campi sbagliare la porta in altezza aveva un prezzo terribile: la palla finiva nell’Annegale e bisognava sperare che ci fosse poca acqua nel canale e poca corrente. Mi ricordo distintamente di aver partecipato a molte partite premunendomi di portare da casa il voghetto, con cui pescavo le gobbe nel Reno: soprattutto quando il pallone era il mio.

 

 



Qualcuno dirà: istantanee di un calcio che non c’è più, di campi che non ci sono più. Vero, in parte. Alcuni campi non hanno retto la prova del tempo (altri hanno chiuso per altre motivazioni), ma alcuni sono sopravvissuti. Cosa è cambiato, quindi? Mancano i giocatori.

Il calcio di strada, che si praticava nelle vie, perdurò nei campetti di risulta, perché era sopravvissuto nel cuore di alcune generazioni. A inizio anni ’90 Stefano Benni gli dedicava un libro grande e profetico, “La Compagnia dei Celestini”.

Fino alla metà degli anni 2000 i ragazzi si trovavano per giocare a calcio, negli spazi pubblici. Qualcuno mi potrebbe dire: mancano i campi non fruibili senza pagare. E’ vero. Come è vero che quei pochi che resistono sono sempre deserti.

Non voglio concludere biascicando un “si stava meglio quando si stava peggio”: ma è indubbiamente vero che qualcosa si è rotto, nelle nuove generazioni. In quei campi, ci si divertiva imparando a stare con gli altri, prendendosi delle responsabilità, magari piccole ma importanti. E si imparava a soffrire. Nello sport come nella vita. Siamo davanti ad una generazione di solisti, cresciuti da genitori iperprotettivi, che coccolano troppo e a volte isolano troppo.

Lasciateli, lasciamoli crescere questi ragazzi. E quando capita, regaliamogli un pallone. Magari, assieme ad un voghetto.

Dario Mantovani

 

   

 

 

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